Bologna, 13 gennaio 2012 – «L’ABITAZIONE è una costruzione a due piani sopraterra attaccata ad altre simili senza soluzione di continuità, il numero 14 è il primo civico sotto i portici sul lato destro». Così i suoi assassini archiviarono nel file ‘Biaginch’ l’esito del primo sopralluogo alla sua abitazione, il 30 marzo 2000.
E per due anni, fino a quel maledetto 19 marzo, continuarono a raccogliere dati su percorsi, abitudini e spostamenti del professore che nei loro deliranti file non chiamarono mai per nome. Conoscevano tutto probabilmente del «grande professore con la faccia da studente timido» come lo ricordò subito dopo la sua morte l’amico e allora ministro del Welfare, Roberto Maroni. Sapevano molto bene di quella protezione revocata e probabilmente anche della paura nella quale lui e la sua famiglia vivevano ormai da mesi. Ma nulla è riuscito a fermare il loro folle piano omicida. Nemmeno quel treno perso, dal docente, per una manciata di minuti, a Modena, da dove stava rientrando dopo le lezioni all’Università. Per il resto tutto uguale a sempre. Un uomo solo e la sua bicicletta rimangono l’immagine di quel freddo martedì sera. E’ il 19 marzo di dieci anni fa e Marco Biagi, qualche minuto dopo le 20, sta pedalando dalla stazione a via Valdonica, la stradina che a dispetto di quella arida descrizione riemersa dai computer dei brigatisti, rimane un angolo magico tra un dedalo di vicoli, piazzette e antichi cammini, della nostra città.
IL CUORE del ghetto ebraico, a tre giri di cambio dalla stazione. Il professore ci sta arrivando con la sua borsa di pelle nera. Dentro c’è gran parte della sua vita. L’altra, la più importante, la sua famiglia, lo sta aspettando a casa. Non è una sera come le altre, il 19 marzo è la festa del papà e in quella casa lo stanno aspettando, per festeggiare, sua moglie Marina e i suoi due figli, Francesco e Lorenzo. La tavola imbandita due piani sopra e il commando brigatista sotto, schierato come studiato dieci, cento, mille volte nel loro folle piano criminale, dalle staffette della morte. Lo aspettano sotto casa col volto coperto dai caschi e i loro nomi storpiati da assurdi pseudonimi ‘operativi’ calzati ad hoc nella loro inutile, criminale e spregevole guerra solitaria. Una manciata di minuti dopo le 20. Il professore arriva, appoggia la bicicletta e prende le chiavi. Loro lo chiamano per nome.
IL DOCENTE si gira, forse risponde anche, poi gli spari dalla stessa calibro nove, si scoprirà poi, che il 20 maggio del ’99 uccise Massimo D’Antona. Nessuna pietà per l’uomo. Le nuove Br non si sono fermate nemmeno dietro al suo ultimo educato ma straziante appello. «Per favore, aiutatemi». Un altro sparo. Poi solo il rumore della moto in fuga. Al secondo piano della palazzina la tragedia di una morte annunciata e tanto temuta. Sotto una città ripiombata in pochi secondi negli anni della paura, come nel ’77, nel ’68. Come per le stragi dell’Italicus e della stazione. E così, quell’angolo buio e nascosto di Bologna improvvisamente viene illuminato a giorno. Già alle 21 l’intero isolato, da via Zamboni a via Marsala, è inavvicinabile a chiunque. Dentro le forze dell’ordine e i magistrati tutti. I giornalisti, i politici che arrivano trafelati e in lacrime e i pochi bolognesi che a quell’ora si trovano in quel fazzoletto nascosto di città. Fuori il mondo, accalcato davanti alle televisioni in cerca di risposte. Chi doveva proteggere il professore e non l’ha fatto ha già capito cosa è successo. Poco dopo le 22 si parla già di attentato terroristico. La rivendicazione vera e propria arriverà il giorno dopo. Mentre al secondo piano il silenzio di Marina, Lorenzo e Francesco tuona contro quello Stato che ha lasciato solo il marito, il padre e il suo servitore. «Se lo aspettavano», è il sussurrato commento che viene da dentro l’appartamento del professore dove decine di amici sono già arrivati per stringersi attorno quella famiglia straziata dal dolore. «Sapevano che dopo D’Antona sarebbe toccato a lui e avevano chiesto protezione». Ma nessuno ha mai risposto.
Emanuela Naldi