Intervista alla professoressa Reggiani Gelmini

di Stefano Marchetti

Simbolo della Fondazione Marco Biagi è una bicicletta. Proprio come quella che il professor Biagi usava abitualmente, quella con cui stava tornando a casa dalla stazione di Bologna, nella tragica sera del 19 marzo di undici anni fa. Il fanale è acceso, quasi a indicare la capacità di ‘illuminare’ e pensare tempi nuovi.

«Marco era veramente un riformista, rigoroso nei suoi princìpi ma sempre disponibile al rapporto con gli altri. L’uomo della mediazione», esordisce Paola Reggiani Gelmini, direttore generale della Fondazione universitaria costituita per volontà della famiglia del giuslavorista e dell’ateneo di Modena e Reggio Emilia. Presieduta da Marina Orlandi Biagi, vedova del docente, la Fondazione ha compiuto da poco dieci anni: la sua sede è a Modena, a pochi passi dalla Facoltà di Economia, e suo compito specifico è promuovere e consolidare il rapporto fra l’università e il mondo del lavoro. Nel solco tracciato da Biagi.

Dottoressa Gelmini, che ricordo ha di Marco Biagi?

«Quel 19 marzo rimase a parlare con me per quasi tutto il pomeriggio. Era una persona di notevole intelligenza, sentiva davvero di dover mettere le sue ricerche al servizio del Paese. Da attento comparatista aveva compreso che l’orizzonte del lavoro stava cambiando non solo in Italia, e quindi era necessario creare le tutele, soprattutto per i giovani. Pensava sempre ai giovani, e amava la sua famiglia come il suo lavoro».

In che modo avete raccolto la sua eredità?

«La nostra attività riguarda soprattutto i temi collegati al diritto e all’organizzazione del lavoro, che erano suoi. Ci occupiamo di alta formazione, ricerca e certificazione dei contratti. Curiamo poi un’attività editoriale e organizziamo vari convegni: il prossimo, del 18 e 19 marzo, sarà dedicato alla dimensione transnazionale delle relazioni di lavoro».

Quali sono i punti chiave della vostra attività formativa?

«Presso la Fondazione si tiene il corso di laurea magistrale in Relazioni di lavoro, quello che il professor Biagi aveva ideato. E gestiamo, per conto dell’ateneo, la Scuola di dottorato in Relazioni di lavoro, un percorso di studi interdisciplinare, espressione del modo in cui l’università si può e si deve aprire all’esterno».

In che senso?

«Questo progetto interagisce moltissimo con il tessuto produttivo e gli operatori economici, anche per seguire l’evoluzione del mondo del lavoro. Un tempo il dottorato era più che altro un passaggio per creare la classe dirigente dell’università: oggi invece forma alte professionalità anche per l’impresa, le istituzioni e le organizzazioni».

Dunque un rapporto più stretto fra pubblico e privato?

«Sì. Non a caso il ministero ci finanzia un numero di borse di studio pari a quello che noi riusciamo ad acquisire autonomamente da soggetti esterni all’università. Nonostante la situazione generale, la risposta è sempre stata positiva. Con la stessa attenzione verso l’esterno, organizziamo anche corsi di alta formazione su misura per enti pubblici o imprese».

E’ questo il futuro?

«Credo di sì. In un mondo che cambia, l’università non può essere autoreferenziale, deve collegarsi sempre più al territorio, all’Europa, confrontarsi con le istituzioni, le imprese, le associazioni, gli ordini professionali. Noi collaboriamo anche con docenti di molti Paesi, e in luglio ospitiamo una summer school con partecipanti internazionali».

Un desiderio?

«Vorrei trovare forme di collaborazione anche con altre università, soprattutto della nostra regione. Ed è fondamentale che si mantenga saldo il gruppo, la squadra. Marco Biagi lavorava per il Paese: se noi avremo contribuito almeno un po’ a questo suo obiettivo, ne saremo onorati».